Utopia radicale tra spazio, arte e partecipazione

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di Alessandra Gabriele

Yona Friedman e il Museo senza pareti

Utopia radicale Tra spazio, arte e partecipazione

di Alessandra Gabriele

Yona Friedman (1923–2020), architetto, urbanista e teorico di origine ungherese, è stato una delle figure più radicali e visionarie dell’architettura del secondo Novecento. Ha, di fatti, anticipato alcune questioni centrali nel dibattito culturale e architettonico contemporaneo: flessibilità, sostenibilità, partecipazione, accessibilità sono alcuni temi che Friedman affronta già nel Secondo Dopoguerra. La sua ricerca ha costantemente posto l’individuo al centro del progetto, valorizzandone la capacità di autodeterminarsi nello spazio. In questa prospettiva, Friedman ha elaborato modelli architettonici aperti, reversibili e accessibili, nei quali l’utente è co-autore dell’ambiente che abita.

Due delle sue teorie principali, l’Architecture Mobile e la Ville Spatiale, risultano fondamentali non solo per comprendere la sua idea di città, ma anche il suo approccio alla cultura e alla trasmissione del sapere. L’Architecture Mobile, formulata nei primi anni Cinquanta, si fonda sull’idea che l’architettura debba adattarsi continuamente ai cambiamenti della vita umana: non strutture rigide e permanenti, ma spazi capaci di evolversi insieme agli abitanti. Da questa visione prende forma la Ville Spatiale, una città concepita come struttura sopraelevata, leggera e modulabile, che lascia agli individui la libertà di scegliere come e dove vivere, intervenendo direttamente nella configurazione degli spazi.

In linea con questa prospettiva di auto-organizzazione e libertà spaziale, Friedman estende la sua riflessione al concetto stesso di museo. Se André Malraux riflette sull’idea di musée imaginaire, Friedman elabora il concetto di museo senza pareti (musée sans murs), che, svincolandosi dai contenitori istituzionali, si apre allo spazio della città. Il museo, secondo Friedman, non deve essere un luogo chiuso, statico, riservato a chi possiede specifiche competenze culturali. Al contrario, l’arte e la conoscenza devono uscire dagli spazi canonici e diventare parte integrante della vita quotidiana, accessibili a tutti, senza barriere né mediazioni.

È questa l’idea di street museum, un museo diffuso che trasforma lo spazio urbano in una galleria a cielo aperto. Le opere — spesso realizzate con materiali essenziali, disegni, collage, fumetti — non sono pensate come oggetti da contemplare, ma come strumenti di comunicazione diretta, in grado di innescare un dialogo attivo con il pubblico. In questa visione, il museo non è solo un luogo espositivo, ma un dispositivo relazionale: un’occasione per creare connessioni, stimolare riflessioni, attivare comunità.

Un aspetto interessante e quanto mai attuale del lavoro di Friedman è la sua attenzione all’accessibilità dei speri. Egli è profondamente interessato a rendere comprensibili concetti complessi anche a chi non ha una formazione tecnica. I suoi manuali, i suoi disegni, i plastici diventano strumenti pedagogici che semplificano, ma non banalizzano, il sapere. Il suo linguaggio visivo — semplice, quasi infantile ma potentemente evocativo — è parte integrante della sua strategia comunicativa. Ogni disegno è una micro-architettura, un frammento di pensiero che invita all’azione, alla partecipazione, alla trasformazione.

In questa prospettiva, Friedman propone una ridefinizione radicale del museo: non più uno spazio fisico chiuso, ma una rete di relazioni, un concetto dinamico, aperto e trasformabile. Il museo del futuro, secondo lui, non sarà quello che custodisce le opere, ma quello che saprà raccontarle, coinvolgendo anche chi è escluso dai circuiti ufficiali della cultura. L’arte non è oggetto di venerazione, ma strumento di inclusione.

Il Museo senza pareti di Yona Friedman rappresenta dunque una frattura radicale rispetto alla visione tradizionale del museo come spazio gerarchico e istituzionale: Friedman propone un’arte democratizzata, decentralizzata, disobbediente, capace di vivere nel quotidiano, tra le strade, nei quartieri, nelle scuole, persino sui muri abbandonati. Un’arte che non ha bisogno di fondi ingenti o di permessi: la sua proposta non è ma concretamente realizzabile. Attraverso progetti effimeri, facilmente assemblabili da chiunque, Friedman mostra che un altro modo di concepire il museo — e l’arte stessa — è non solo possibile, ma necessario. In un presente segnato da diseguaglianze culturali e sociali, il suo pensiero continua a offrire una visione potente e alternativa: un’utopia concreta che invita all’azione collettiva e alla responsabilità condivisa dello spazio pubblico.

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