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di Annalisa Nicastro

Ci sono muri che hanno voci incise nel cemento, nel filo spinato, nella polvere sollevata dal vento. Raccontano storie di mani che li hanno eretti e di corpi che hanno provato a scavalcarli, di sguardi separati da una linea tracciata senza pietà, di nomi scritti con la speranza di non essere dimenticati.

Il vero limite rimane negli occhi di chi guarda. Perché alle volte il vero confine non è la pietra, ma lo sguardo. 

Esistono anche muri che non dividono, che non sono solo confini. Muri che sanno accogliere perché  possono diventare soglia, promessa, invito. Il muro si abbatte quando il limite non è più una chiusura ma un varco. Dipende da noi se buttarlo giù, attraversarlo o dipingerlo di sogni.

I muri tracciano percorsi. Sono ferite e cicatrici, ma anche protezioni e habitat. Simboli di esclusione, ma a volte spazi di incontro, tele su cui l’umanità dipinge la propria storia.

L’arte ha sempre saputo guardare oltre il mattone e il cemento. Marina Abramović e Ulay hanno camminato sulla Muraglia Cinese per separarsi, rendendo il limite un atto d’amore definitivo. Michelangelo Pistoletto ha trasformato il muro in specchio, perché il confine più difficile da attraversare è sempre quello interiore. Maria Thereza Alves insegna che un muro può farsi casa, culla di nuova vita, habitat per radici che non conoscono barriere.

Ogni muro può farsi porta, ponte, varco culturale. Diventano così carezze sulla pelle della terra, tracce di chi ha camminato prima di noi, impronte di mani che hanno saputo costruire invece di distruggere.
A Battir, 554.000 metri lineari di muri a secco, patrimonio UNESCO, disegnano il paesaggio come vene di pietra, pulsanti di memoria. Qui il muro non separa, ma collega. Dialoga con il vento, con le radici degli ulivi che affondano nella storia dell’umanità, con il canto degli uccelli che trovano rifugio tra le fenditure della pietra.

Questi terrazzamenti non sono solo architettura, ma un respiro antico, un equilibrio segreto tra la gente e la natura. Seguono le curve della valle come una seconda pelle della montagna, trattengono l’acqua, accolgono il seme, nutrono la vita. Sono fili intrecciati a disegnare un tessuto vivente, dove ogni pietra è una parola, ogni frutto una risposta, in contrapposizione ai muri che si alzano ciechi, senza ascolto. 

Questi blocchi di cemento armato non solo cambiano la geografia, ma il modo in cui l’umanità si guarda, si teme, si dimentica di appartenere allo stesso orizzonte.

I muri di Battir raccontano un’altra possibilità. L’arte del costruire senza dividere. Dell’appoggiare senza ferire. Della resistenza silenziosa che continua a fiorire, ostinata, tra le fessure della pietra.

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